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giovedì 25 agosto 2016

INTERVISTA SU "TEMPI" A CASADEI - LE RAGIONI DEL NO

Ragioni per il "no" al referendum costituzionale

di Rodolfo Casadei
tempi.it, 22 agosto 2016

Sarà ricordato come il referendum più bizzarro della storia d’Italia, trasformato dal capo del governo in plebiscito su se stesso tre mesi prima che la riforma costituzionale su cui gli italiani sarebbero stati chiamati ad esprimersi venisse approvata dalle Camere, e nove mesi prima della presumibile data del suo svolgimento. Matteo Renzi ha minacciato di dimettersi non solo dalla presidenza del Consiglio, ma dalla politica tout court già a gennaio di quest’anno, e lo ha ripetuto fino alla vigilia delle amministrative di giugno. Dopo di allora ha ribaltato il discorso di 180 gradi, ma era troppo tardi: si era formata specularmente un’ecumenica coalizione per il “no” tenuta insieme più dall’avversione al segretario del Pd che da un comune sentire circa l’oggetto del contendere, cioè la riforma costituzionale approvata coi voti della sola maggioranza più il soccorso dei verdiniani di Ala.

E sì che di argomenti razionali e oggettivi per confutare i contenuti della riforma Renzi-Boschi ce ne sono in abbondanza. E se quando si leggono i contenuti delle homepage di certi Comitati per il No cresce la tentazione, come ha scritto Davide Giacalone, di votare “sì”, quando invece si approfondisce l’argomento, le ragioni del “no” si stagliano limpide. I difetti della riforma sono almeno tre: non semplifica il funzionamento delle istituzioni e non aumenta la governabilità, anzi li deteriora; annienta l’autonomia regionale e ripropone il centralismo statalista; il combinato disposto della riforma costituzionale e della nuova legge elettorale (l’Italicum) provoca effetti distorsivi su tutto il sistema istituzionale, creando le condizioni per lo strapotere senza contrappesi di chi magari al primo turno ha preso poco più di un quarto dei voti.

La clausola di supremazia

Vediamo nel dettaglio queste criticità cominciando dalla seconda. Il nuovo testo costituzionale elimina le materie di competenza concorrente fra Stato e Regioni fissate nella riforma del 2001 e le trasferisce quasi tutte allo Stato; di conseguenza le materie di competenza esclusiva dello Stato passano da una trentina a una cinquantina. Questa in linea di principio avrebbe potuto essere una buona cosa, giovando a ridurre il contenzioso sulle competenze davanti alla Corte costituzionale e restituendo al governo centrale materie che nel 2001 gli erano state sottratte solo per togliere argomenti alla propaganda leghista, che a quel tempo era all’apogeo (quella riforma fu promossa dal governo di centrosinistra di allora).

Ma la nuova Costituzione non si limita a questo. Per una serie di materie che pure sono assegnate alla competenza regionale (tutela della salute, politiche sociali, sicurezza alimentare, istruzione e formazione professionale, attività culturali e turismo, governo del territorio) allo Stato spetta non più, come in precedenza, dettare i “princìpi fondamentali” a cui la legislazione regionale deve attenersi, ma formulare “disposizioni generali e comuni”. Quindi, mentre prima lo Stato definiva i princìpi e le Regioni erano competenti per le norme di attuazione, dopo la riforma lo Stato potrà emettere norme comuni uniformi, imporre per esempio lo stesso modello di sanità a tutte le Regioni, non importa che siano virtuose come la Lombardia o scadenti come la Calabria. Il ruolo delle Regioni diventa meramente amministrativo, come quello dei Comuni.

Come se non bastasse, nel nuovo testo costituzionale lo Stato riserva a sé una “clausola di supremazia”, in base alla quale può, se vuole, fare semplicemente quel che gli pare e gli piace. Si legge al quinto comma dell’art. 117: «Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale».

Leggi regionali? Una burletta

Le Regioni di loro iniziativa non possono fare praticamente più niente, perché oltre alle competenze e alle norme attuative che non siano mera applicazione amministrativa viene loro tolta anche l’ultima ombra di autonomia tributaria. Nell’attuale testo costituzionale gli enti sub-statali stabiliscono i tributi «secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» fissati dallo Stato, invece in quello nuovo devono attenersi a «quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» (secondo comma dell’art. 119). Perché nel nuovo art. 117, alla lettera e) del secondo comma si stabilisce che «lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: […] coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario». In buona sostanza, tutta la finanza regionale tornerà a essere derivata, i tributi saranno stabiliti da una legge nazionale e semplicemente istituiti da una regionale, anche se la materia per la quale alla Regione servono i soldi è di sua competenza. La facoltà delle Regioni di legiferare diventa una burletta: a che serve varare leggi se non le si possono finanziare? Ciliegina sulla torta, tutte le restrizioni applicate alle regioni ordinarie non varranno per le regioni a statuto speciale. La Sicilia potrà continuare a fare quello che ha fatto finora, la Lombardia, il Veneto, l’Emilia perderanno anche quel po’ di autonomia che avevano conquistato negli ultimi quindici anni.

I fan della riforma sostengono che il giro di vite antiregionalista è salutare, considerato che molti degli scandali giudiziari dell’ultimo decennio hanno riguardato l’allegra gestione delle risorse pubbliche da parte delle Regioni. Si può rispondere che tali scandali forse non sarebbero avvenuti se il federalismo fiscale fosse stato introdotto per davvero, rendendo la classe politica regionale responsabile davanti agli elettori del territorio. Resta comunque il fatto che i nuovi articoli della Costituzione disattendono il tuttora in vigore articolo 5: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; […] adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento».

Un ex presidente della Corte costituzionale come Franco Gallo ha esecrato il siluramento dell’autonomia regionale nel nuovo testo costituzionale. Ha scritto: «I princìpi costituzionali di democrazia e di autonomia sono tra loro inscindibilmente connessi, così come lo sono i corollari di sussidiarietà […]. E questi princìpi vogliono che i cittadini amministrati siano, in ogni caso, posti in grado di controllare, indirizzare e giudicare l’operato dei loro amministratori per quanto riguarda le decisioni di spesa e di entrate assunte nella propria sfera di autonomia».

Semplificazione o confusione?

E passiamo al tema della governabilità e della semplificazione. I fautori della riforma sostengono che la trasformazione del Senato in una sorta di Camera delle Regioni che non partecipa al voto di fiducia per il governo e che vota solo alcune leggi renderà più spediti i lavori parlamentari e permetterà di ridurre i costi della politica, perché il Senato sarà formato in prevalenza da consiglieri regionali scelti con elezioni di secondo livello. Peccato che le cose non stiano affatto così. I risparmi non andranno al di là dei 72-73 milioni di euro all’anno, mentre il procedimento legislativo non verrà semplificato, ma ulteriormente complicato. Si profilano, secondo alcuni, da sette a dieci procedimenti legislativi diversi. Dice un altro ex presidente della Corte costituzionale, Valerio Onida, nel contesto del suo dialogo col senatore Gaetano Quagliariello contenuto nel libro Perché è saggio dire no (Rubbettino, 2016): «Il sistema dei procedimenti legislativi è stato complicato e non certo semplificato. Se passerà la riforma, avremo una pluralità di procedimenti differenziati in base alle diverse modalità di intervento del nuovo Senato: leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta. Penso che alla Corte costituzionale debbano prepararsi a fare gli straordinari».

Come funzionerà il Senato formato da 100 elementi provenienti dai consigli regionali, alcuni sindaci e cinque membri nominati dal capo dello Stato, ancora non è chiaro. Si chiede retoricamente il senatore Quagliariello: «Ma come è possibile disegnare un sistema del genere senza prevedere la presenza nel Senato dei presidenti delle Regioni? E come è possibile immaginare un Senato delle autonomie senza chiarire se i senatori rappresentano l’istituzione regionale da cui provengono o il partito che li ha eletti? Ed è possibile pensare di fare del Senato il luogo di confronto tra livello centrale e autonomie e non abolire la Conferenza Stato-Regioni?».

Sì, c’è anche questa bizzarrìa nella nuova costituzione: secondo il nuovo articolo 55, «il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica», ma nessuno ha messo all’ordine del giorno l’abolizione della Conferenza Stato-Regioni, l’organo collegiale che da trent’anni costituisce la sede privilegiata della negoziazione politica tra le Amministrazioni centrali e il sistema delle autonomie regionali: una proposta in tal senso della Lega Nord in commissione nel dicembre 2014 fu respinta.

Il giudizio di Onida non lascia scampo: «Nel momento in cui si è deciso di sottrarre al Senato la funzione di camera politica che vota la fiducia al governo, bisognava trasformarlo in una vera camera delle Regioni, dotata di poteri effettivi e realmente rappresentativa delle autonomie territoriali. E invece la ricentralizzazione operata col Titolo V e la delineazione del Senato come una camera debole e priva di poteri significativi rendono questa riforma non solo inutile ma fondamentalmente dannosa». Non si è avuto il coraggio di passare dal bicameralismo perfetto al monocameralismo, e così si è approdati al bicameralismo confuso.

Pochi voti, tutto il potere

Infine ci sono i problemi che nascono dall’incrocio fra i contenuti della riforma e quelli della legge elettorale. L’Italicum prevede un premio di maggioranza pari al 54 per cento dei seggi della Camera per la lista che vince al ballottaggio (se al primo turno nessuna lista ha superato il 40 per cento), pari a 340 deputati su 630. Di quei 340, almeno 100 sono uomini di fiducia del segretario del partito, perché il sistema prevede 100 collegi plurinominali con capilista bloccati. Si noti che per l’elezione del presidente della Repubblica, la riforma Boschi prevede che dal quarto scrutinio è sufficiente il 60 per cento dell’assemblea, dal settimo il 60 per cento dei votanti. 

L’Italicum è una legge pensata su misura per il Pd trionfante di Renzi, che libero da vincoli di coalizione e forte della mancanza di alternative politiche a causa della crisi del centrodestra potrebbe conquistare tutto il potere, contrappesi istituzionali compresi, con un risultato di poco superiore a un terzo dei voti al primo turno.

Tuttavia potrebbe sortire risultati ben diversi da quelli sperati. Tanto per cominciare, fra i giorni dell’approvazione della nuova legge ed oggi c’è stata l’ascesa del M5S, che nei sondaggi si contende il primo posto col Pd. Ma anche una vittoria al ballottaggio non assicurerebbe necessariamente a Renzi e ai suoi successori la vagheggiata governabilità incontrastata. Se il 5 per cento del 54 per cento di deputati della lista vincente si mettesse a fare le bizze, per il governo si metterebbe male. Si tornerebbe alla logica dei soccorsi verdiniani o dei patti del Nazareno. I prossimi parlamenti faticheranno a trovare la rotta fra la Scilla dell’appiattimento sull’esecutivo e la Cariddi del trasformismo per riprendersi il potere ad essi strappato dal presidente del Consiglio.

Profetizza Davide Giacalone: «Già sappiamo quali costumi deriveranno da una simile riforma: o una platea parlamentare sovrastata dal potere di chi decide le candidature, la distribuzione dei bonus e la soddisfazione delle clientele, quindi un parlamento a direzione partitica e incarnazione governativa; oppure la reazione con la decomposizione, ovvero il consolidarsi del già patologico trasformismo, talché gente eletta con i voti degli uni andrà (come già va) a popolare le file degli altri. Il veleno sta nell’interazione fra quella riforma costituzionale e la già fatta riforma del sistema elettorale».

L’eccezione Ala diventa regola

Ed ecco cosa pensa Quagliariello: «Rischiamo di andare o verso un sistema bloccato con un grande partito centrale che per governare e gestire il potere anestetizza i conflitti interni attraverso il sistematico ricorso a pratiche trasformistiche, o peggio ancora verso uno scontro titanico tra politica e antipolitica. Sarebbe in ogni caso una condanna: o al trasformismo permanente o alla sostituzione del conflitto nel sistema con un conflitto fra sistemi. […] Se il nuovo sistema entrerà in vigore, il partito del premier sarà dotato di un potere eccessivo, privo di contrappesi e, con ogni probabilità, scarsamente legittimato in termini di consenso elettorale effettivo. Ma allo stesso tempo avrà una forza parlamentare limitata, per cui basterà una fronda interna a metterlo in scacco e per sterilizzarla sarà costretto a replicare il “modello Ala”, che da eccezione diverrebbe la regola. Avremo un sistema che non protegge dagli inciuci e allo stesso tempo consente alla maggioranza, anzi al partito di maggioranza, di eleggersi praticamente da solo tutti gli organi di garanzia».

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