Cari
amici, continuando a illustrare i profili problematici della riforma
costituzionale oggi vi proponiamo questo articolo del magistrato
Domenico Airoma, vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino,
pubblicato sulla nuova Bussola Quotidiana il 3 ottobre.
4. Governabilità contro rappresentanza
Perché riformare una Costituzione?
Per
la verità, ci si potrebbe, ancor prima, chiedere perché scrivere una
Costituzione. Vi sono state, infatti, epoche storiche nelle quali le
società hanno fatto a meno di norme “costituzionali”, senza minimamente
risentirne. Le costituzioni scritte rappresentano una caratteristica
dell’epoca “moderna”, nata con la Rivoluzione Francese; in epoca
pre-moderna, si conoscevano, al più, documenti che richiamavano principi
generalmente riconosciuti e condivisi, che venivano messi per iscritto
dinanzi a governanti tentati dalla tirannia. Il contesto culturale era
omogeneo; oltre che sul consenso, il rapporto fra governanti e governati
si reggeva nel comune riferimento a principi superiori, che
rappresentavano il limite ed al contempo il fondamento del potere.
Con l’epoca moderna, in una società non più culturalmente omogenea,
la Costituzione è chiamata a descrivere il “progetto” di società; non
ha più contenuto ricognitivo di dati pre-esistenti ma “ideologico”;
rimosso ogni riferimento a limiti superiori, “non negoziabili”, si tratta di sostituirli con norme che – per mera convenzione - vengono definite fondamentali, rappresentando esse il fondamento ed il limite del potere.
Come ogni convenzione, può cambiare: o
dal basso, cioè dal lato dei governati - in presenza, solitamente, di
radicali, ed a volte anche violenti, rivolgimenti -, oppure dall’alto,
cioè dal lato dei governanti, quando – chi è in condizione di farlo -
decide che è venuto il momento di cambiare le regole del gioco, cioè di
dare un nuovo assetto al rapporto fra governabilità e rappresent anza.
Non vi è dubbio che ci troviamo dinanzi alla seconda ipotesi.
A questo punto, però,occorre anche chiedersi: chi e, soprattutto, come si intendono cambiare le regole del gioco?
Quanto al chi, va subito detto che Renzi appare più l’esecutore materiale che
il regista dell’intera operazione. Autorevoli politologi hanno da tempo
posto in evidenza come i governanti vanno assumendo un volto sempre più
globalizzato, articolato e transnazionale, tanto da parlare non più di
governo ma di governance. Chi governa il mondo – per riprendere
un’espressione di Sabino Cassese - ha sempre più l’aspetto composito di
finanzieri, funzionari di organizzazioni sovranazionali, tecnici di
agenzie intergovernative ed internazionali: non si tratta di indulgere
al facile teorema dei poteri forti, ma di prendere atto del fatto
che i governanti nazionali sono solo attori co-protagonisti, e spesso
anche secondari, di questa governance globale.
Non è un caso, peraltro, che su questa riforma costituzionale si
siano pronunciati a favore (ed a quale titolo, se non perché
interessati in quanto co-governanti?) da Soros ad Obama, dall’Unione
Europea ai principali circuiti mediatici internazionali.
Veniamo al come.
L’Italia
resta ancora per tanti aspetti un’eccezione, soprattutto sulle
questioni etiche. I governati, nei quali sopravvivono barlumi di buon
senso, ovverosia di familiarità con principi dettati dalla ragione
naturale prima ancora che dalla fede cristiana, costituiscono spesso un
ostacolo nella “normalizzazione” del Paese. Ogni esigenza di
rappresentanza delle comunità, delle famiglie, dei corpi intermedi, non
possono che cedere il passo dinanzi alla volontà generale/globale che
reclama uniformità di attuazione.
Il cambiamento di quadro è ben espresso dall’on. Luciano Violante, in un recente articolo pubblicato sulla rivista “Questione Giustizia”:
«Le
procedure tradizionali presupponevano una politica padrona del proprio
spazio e del proprio tempo. Non prevedevano la interdipendenza globale;
non tenevano conto della permeabilità delle politiche pubbliche di
ciascuno Stato a quelle degli altri Stati. Agivano in un contesto in cui
la politica governava ancora i grandi processi economici e finanziari.
Non ritenevano la velocità della decisione politica una qualità
necessaria della democrazia; anzi ritenevano utili ripensamenti, pause
di riflessione, riesami. Oggi non è più così. Bisogna rendersi conto che
non viviamo in un’epoca di cambiamenti; viviamo in un cambiamento
d’epoca (…).
Le
politiche pubbliche sono diventate interdipendenti; i Governi devono
perciò tenere conto di quanto fanno i Paesi concorrenti per non essere
tagliati fuori dalla competizione internazionale danneggiando così i
propri cittadini. Siamo nel tempo della morte dei confini.
Il
rapporto tra politica e finanza si é rovesciato. «A volte», disse
Tietmeyer a Davos nel 1996, «ho l’impressione che la maggior parte dei
politici non abbia ancora capito quanto essi siano già oggi sotto il
controllo dei mercati finanziari». (…)
Il
fenomeno è frutto del crescente rilievo della politica europea e della
politica estera, sempre più spesso condotte direttamente dal presidente
del Consiglio, della necessità di decisioni rapide, che non consentono
confronti, dell’esigenza di un parallelismo tra le proprie funzioni e
quelle dei colleghi di altri Paesi con i quali il presidente del
Consiglio deve interloquire e negoziare».
Se questo è il quadro entro il quale va inserita la riforma costituzionale, tutto è più chiaro, anche quanto al come.
La governabilità non può essere commisurata alle esigenze di
rappresentanza dei governati, bensì sulla necessità di dare attuazione
rapida a decisioni prese altrove. Gli interlocutori dei governanti non
sono le comunità locali, ma i circuiti politico-finanziari
internazionali, come ammonisce l’on. Violante: il capo del governo non
può perdere tempo in confronti. L’eventuale deficit di rappresentatività
del governo deve essere superato semplicemente azzerando ogni presenza
delle voci delle minoranze in Parlamento, che deve essere ridotto al
ruolo di notaio amico.
Non si tratta, come è ovvio, di tessere le lodi di quella che Donoso Cortes definiva la classe discutidora.
Si tratta, invece, di difendere gli spazi residui di rappresentanza e
di libertà che solo un Parlamento nel quale siano presenti i diversi
frammenti della odierna società plurale può, in qualche misura,
garantire.
Perché, allora, riformare la Costituzione?
Per
far prevalere la governabilità sulla rappresentanza, le esigenze della
governance globale su quelle delle comunità e dei corpi intermedi
nazionali. Se dovesse passare il “sì” alla riforma, non è certo la fine
del mondo; quel che è certo è che si accelera la fine di “un” mondo,
quello che, per tanti aspetti, contribuisce a fare ancora dell’Italia
una felice eccezione.
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