Perché Mario Monti punta l'indice sul sistema sanitario nazionale, dopo aver sottoposto l'Italia ad un elettroshock di tasse, tagli e altri sacrifici? Non pensiamo che il presidente del Consiglio, benché tecnico, sia politicamente sprovveduto. Il timore che il tutto fosse da collegarsi ad un buco di bilancio, circolata dopo le nuove stime al ribasso del Pil, che secondo l'Ocse renderebbero necessaria una nuova manovra nell'arco di due anni, è stato smentito dalla precisazione di palazzo Chigi: il nostro sistema sanitario di tipo universale è e può restare sostenibile, a condizione però che si arrivi a una sua profonda riorganizzazione. Non poteva mancare la levata di scudi di Rosy Bindi: «Non accetteremo un sistema di tipo assicurativo, proprio mentre negli Usa Obama cerca di introdurre principi simili a quelli del welfare europeo». Purtroppo per l'ex ministro della Salute e tra poco anche ex presidente del Pd, Monti ha ragione. E vi spieghiamo perché. Il capo del governo ha sul tavolo due documenti: uno della Ragioneria dello Stato, l'altro della Direzione generale della programmazione sanitaria del ministero della Salute. Quest'ultimo fotografa la situazione attuale: «Nel 2011 - vi si legge - la spesa sanitaria complessiva è stata di 113 miliardi di euro, per la quasi totalità (112,2 miliardi) riferita alle regioni». Si tratta del 7,1 per cento del Pil: a titolo di raffronto, negli Usa la spesa è di 2.500 miliardi di dollari, circa il 17 per cento del Pil. La spesa procapite americana è di 7.500 dollari, cioè 5.600 euro, la più alta del mondo. Quella italiana di 1.851 euro. Il che sfata molti luoghi comuni, oltre a smentire in blocco Rosy Bindi. Ciò che continua ad essere sballato da noi, così come oltre Atlantico è certo discutibile la mancata copertura per chi perde il lavoro, sono la gestione e il controllo delle risorse. Dallo stesso rapporto del ministero emerge che un blocco di regioni (Lazio, Liguria, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna) accusa un deficit medio di 1,9 miliardi, mentre altre (Lombardia, Veneto, Toscana) evidenziano un utile di 134 milioni. Il paradosso, ma non troppo, è che si spende più nelle regioni con i conti a posto - oltre 2 mila euro procapite - che non in quelle in rosso, con il record minimo di 1.700 euro della Calabria. Un circuito perverso che è del resto simboleggiato dai debiti delle regioni: 15 miliardi la Campania, 11 il Lazio, sette il Piemonte, cinque la Sicilia, un miliardo la Puglia dove Nichi Vendola esibisce un risanamento ottenuto con il dirottamento dei fondi europei. Ma cosa ci aspetta per il futuro? Perché, come dice Monti, è a rischio la sostenibilità del sistema? Qui risponde la Ragioneria dello Stato: il suo report si chiama «Tendenze di medio e lungo periodo del sistema socio-sanitario». Eccole: «La spesa è destinata a passare, in uno scenario demografico costante, cioè senza cambiamenti nel rapporto tra le varie fasce di età previsto per i prossimi anni, da un'incidenza del 7,1 per cento sul Pil al 6,9 nel 2015 e al 7 nel 2020, per poi aumentare gradualmente da quell'anno in poi, arrivando al 7,3 nel 2025 e all'8,4 nel 2055-2060». Questo però per le patologie ordinarie. «Per quanto riguarda la Long Term Care, che comprende le prestazioni erogate ai non autosufficienti che hanno necessità di assistenza continua, la spesa presenta un potenziale di crescita decisamente più elevato». L'Italia, in altri termini, è al limite. Sicuramente spaccata in due tra regioni dove si paga e si pagherà sempre di più, e ci si cura peggio, e quelle dove accade il contrario. Il motivo? Lo spiega un terzo documento dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici nel Servizio sanitario nazionale. Dal quale apprendiamo che il costo di una siringa sterile varia da 2 a 65 centesimi. Una protesi d'anca da 284 a 2.575 euro. I pasti giornalieri di un paziente da 9,40 a 50 euro. Quelli di un dipendente da 4,62 al quadruplo. Eppure l'intero paniere di beni e servizi vale, da solo, oltre un terzo della spesa nazionale, la seconda voce dietro ai costi del personale. E la differenza è data proprio da una regione all'altra, da una Asl all'altra. Le regioni a loro volta si rifanno con addizionali e ticket a carico dei contribuenti. Il risultato è una sanità che non è né uguale per tutti, in termini di prestazioni e prezzi, e che grava su tutti noi almeno otto volte: con l'Irpef nazionale, con quello regionale, con l'Irap, con i ticket, con le quote sulle Rc auto, con le assicurazioni private per chi se le può permettere, e infine con i quattrini che tiriamo fuori di tasca nostra per medicinali e medici fuori convenzione, se non addirittura in nero. Chiedere almeno una riorganizzazione di tutto questo non è affatto un tabù e non richiede proteste ideologiche. C'è un evidente problema di controlli, che la riforma del titolo V della Costituzione attuata dall'Ulivo nel 2001 ha affidato alle regioni, senza prevedere una pari responsabilità. Il che oltre a spese record e servizi minimi, ha generato scandali e corruzione. C'è un problema di carico fiscale per cittadini e imprese. E c'è un problema di riordino: a cominciare dai medici di base, che spesso prendono dallo Stato il doppio di quello che lo stesso Stato riconosce ai primari e medici in prima linea negli ospedali. A settembre il governo aveva annunciato come primo passo la riorganizzare della medicina di base, con poliambulatori in servizio 24 ore: apriti cielo; scioperi e lobbying parlamentare. Se questo è l'antipasto, ben venga l'allarme lanciato da Monti.
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